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Serata FCTI sulla gestione del camoscio




Quasi centocinquanta partecipanti hanno seguito la conferenza del prof. Pier Giuseppe Meneguz (v. foto), veterinario e cacciatore, professore associato presso la Facoltà di Veterinaria dell’Università di Torino. Il tema della serata tenutasi lo scorso 11 marzo presso il Centro PC di Rivera era imperniato sulla biologia e gestione del camoscio, con particolare riferimento all’esperienza del Piemonte. Partendo da lontano nel tempo, il relatore ha presentato il processo evolutivo della gestione del camoscio nel comparto alpino della Regione Piemonte. I primi esperimenti iniziarono nel Comprensorio Alpino Alta Valle Susa nel lontano 1986. Un processo, quindi, che non è stato improvvisato dall’oggi al domani.

Il primo censimento permise di avvistare 738 camosci e in quell’anno il piano di prelievo fu di 80 camosci suddivisi in 10 maschi adulti, 20 femmine e 50 anzelli, tenendo conto di una popolazione destrutturata a seguito del prelievo rivolto in prevalenza ai maschi adulti, avvenuto negli anni precedenti. I singoli capi furono assegnati individualmente e ogni cacciatore ricevette un braccialetto da applicare immediatamente dopo l’abbattimento (in caso di mancata cattura, il braccialetto andava e va tuttora riconsegnato). Negli anni seguenti il sistema fu esteso ad altri Comprensori alpini, ognuno suddiviso in distretti più piccoli, con l’assegnazione di un numero massimo di cacciatori in base alla superficie del distretto e al numero di capi disponibili (in genere, non più di 1.3 cacciatori/capo disponibile purché sia garantita la ripartizione equilibrata tra le diverse classi di tiro). La durata dei periodi venatori è di 3-4 mesi per completare i piani di prelievo, l’assegnazione di braccialetti ai cacciatori in base ai capi da prelevare. Al fine del raggiungimento della parità dei sessi è prevista la non penalizzazione del cacciatore in caso di abbattimento di femmine allattanti. Si è da subito rinunciato a incentivare il tiro delle femmine “asciutte”, con l’obiettivo di non creare capretti orfani per massimizzare il reclutamento giovanile. È stata preferita la strategia di non incentivare il prelievo di femmine “asciutte”, con l’obiettivo di esercitare una pressione equilibrata su tutte le classi di età in base alla loro effettiva proporzione nella popolazione. In questo modo si è assegnato un’unica classe “femmine adulte di 2 o più anni”, senza penalizzazioni o premi per il fatto di essere asciutte o allattanti o per età. Il prelievo che ne risulta, è quindi di tipo “casuale” più paragonabile di qualunque altro agli eventi naturali che incidono, senza orientamento, sulla mortalità degli adulti di camoscio. Per lo stesso motivo è previsto anche il prelievo di individui di classe zero, ossia capretti. Il prelievo di femmine di camoscio allattanti e dei loro capretti è d’altronde praticato anche in Svizzera nei Cantoni a riserva, ad esempio San Gallo, dove circa il 10% delle catture è costituito da capretti. Questo tipo di gestione funziona se la consistenza degli effettivi è conosciuta e con una percentuale di prelievo sostenibile; sarebbe invece impensabile che da noi ognuno potesse andare a sparare al primo camoscio che gli arriva a tiro. Un sistema di gestione comunque difficilmente comprensibile per molti cacciatori nostrani, che sono intervenuti nella discussione per ribadire l’importanza di proteggere anzelli e femmine giovani (di un anno e mezzo e di due anni e mezzo, oltre che quelle allattanti, e che non hanno minimamente scalfito le loro granitiche convinzioni nemmeno di fronte ai dati presentati dal prof. Meneguz. Dati che mostrano l’evoluzione delle consistenze degli effettivi, che non sono diminuiti, bensì triplicati nel periodo 1980- 2013 e quella delle catture, passate da circa 600 a oltre 2’500 negli ultimi trent’anni. Il relatore ha pure esposto il concetto di capo sanitario, il cui tiro va premiato. Il capo sanitario è definito nel caso in cui la preda consegnata al posto di controllo presenti segni di malattia, lesioni o ferite precedenti (escluse quelle di giornata) denunciate dal cacciatore al momento della presentazione del capo, oppure di peso inferiore del 35% rispetto al peso medio della corrispondente classe di sesso ed età. In conclusione, il relatore si è mostrato preoccupato non tanto per il camoscio, quanto per l’aumento dell’età media e della progressiva diminuzione del numero dei cacciatori, non soltanto in Italia ma in quasi tutta Europa. Un cenno finale al ritorno dei grandi predatori, che preoccupano i cacciatori e che forse un giorno ne prenderanno il posto e la funzione di regolatori degli ungulati selvatici. Riprenderemo l'articolo sulla rivista di giugno, con grafici e foto.

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